Recensioni

Estratti critici di approfondimento

Le recensioni su Gian Rodolfo d’Accardi

Scoprite alcune tra le critiche che più hanno saputo cogliere la sensibilità artistica di G. R. d’Accardi, uomo, pittore e poeta.

Alberto Bevilacqua (1975)

“C’è qualcosa, di ogni pittore che ci affascina, che ci porta ad una zona prediletta della nostra memoria visiva. D’Accardi mi rimette a fuoco con il sognare della mia adolescenza: erano orizzonti in cui, sulle creature viventi e colte in un loro moto emblematico, campeggiava una natura verticale, di tronchi e luci fuse; oppure bassorilievi come presentiti da una cultura che avrei appreso in seguito, e dove erano gli uomini ad impastarsi fino a formare un groviglio arboreo. Non credo esista, per un artista del colore, maggiore felicità di questo possedere una dolce profanazione — per tinte e bagliori — capace di stimolare l’occhio segreto affondato in un mistero di cui abbiamo solo rivelazioni. Significa che i bianchi, i rossi, i neri di d’Accardi, sempre posti strategicamente a segnalare la sete di contatto, di convergenza degli esseri, appartengono alla religio: ossia a quella disposizione alla mistica istintiva che precede il formarsi delle singole religioni, e nasce coi popoli, formandoli via via con bagliori dello spirito. Cavalli, neve leggera: moti verticali, staticità orizzontali. Ma anche, improvvisa, candida su ogni altro colore, una Crocefissione: con quei bianchi, come se Cristo fosse già divenuto ostia. Ecco dunque avvalorarsi, in d’Accardi, una sorta di spartito musicale del colore, che dal pianissimo (il senso albare della vita) sconfina via via nell’acuto, dall’allegro sale al Miserere. Mi sembra un punto determinante. Stanno qui i principi strutturali: i legami fra pezzi successivi pieni di cadenza sono ottenuti con quella saggezza difficile che è la sfumatura, e la tastiera è vasta se dall’intenso lirismo si passa alla velata ironia, a un tocco di farsa «offenbachiana» direi. Personalmente prediligo il d’Accardi che, nel quadro, esprime simultaneamente due «verità» contrarie che si neutralizzano nella sua morale del mondo: il colore. E il Cristo crocefisso, che ho citato, ne è l’esempio più alto. Resta da dire che l’io scompare, ma il senso della vita mai; questa è una pittura da occhi sgranati sul mondo, ma non da uno solo, bensì da una comunità invisibile quanto sempre presente, sensitiva e, in ciò stesso, giudicante. E credo di poter tornare, oggettivamente, all’intuizione iniziale. Non solo per me (di fronte al suo dipingere) d’Accardi propone, quale condizione massima d’elegia e d’incanto, l’età adolescente; la proposta si rovescia anche sul pittore, lo investe, diventa leggenda, vangelo laico: la terra è vista con un senso autorale, che ci ammonisce sul prima di ogni evento. Così ci viene raccontato che il vivere ha ancora uno splendido stupore di se stesso.”

BEVILACQUA, Alberto (1975). Presentazione. In d’Accardi. Mostra Antologica: monografia – catalogo delle opere. Saloni di Palazzo Butera dei Principi Branciforti, Palermo. Catania: Edizioni New Gallery.

Dino Bonardi (1941, 1943)

“Pittore giovane, al disotto dei quarant’anni, Gian Rodolfo d’Accardi s’è conquistato, con laboriosa tenacia, una sua personalità. Non vasta forse, ma, certo tanto precisa da farsi notare. Siciliano di nascita, milanese di costume, molti accenti della pittura lombarda si son trasferiti nella sua tavolozza, insieme con quel lato romanticismo, nel gusto del comporre, in quel senso abbandonato e lievemente musicale del colore, in quel dolce reclinare della forma su se stessa, come fanno i fiori piegati dal vento, che sono tra le doti e i caratteri della pittura lombarda, dall’Ottocento in giù. E pittore romantico si può ben dire d’Accardi anche nel tessuto intimo della sua pittura, per quel contenuto che è poi il mondo, spirituale e plastico, in cui si configura come espressione. […] Quel tanto di stupore che conferisce timbro moderno alle sue concezioni è risolto in accento umano. Così un sentimento patetico, poesia segreta, hanno le sue Cavalcate fra nevi, o boschi, leggiadre composizioni, distillate fra eleganza e sottili tormenti poetici, d’una casta gentilezza, risolte anche pittoricamente con bravura e dignità.

Anche il fatto pittorico è ben posseduto e dominato. Così un importante Paesaggio al crepuscolo può assumere densa forza tonale, levarsi a dignità di linguaggio plastico che affida in ulteriori sviluppi dell’arte di d’Accardi, già oggi collocata in bella luce, per sue note personali e per un suo nerbo interno che è umano e poetico, che la porta fuori dai fastidiosi, vacui limiti della decorazione, in un campo di valori, come contenuto e forma, costruttivi.”

BONARDI, Dino (1941, 28 marzo). Mostre d’Arte. G. R. d’Accardi. La Sera. 

 

“Tra gli artisti che notammo, per un loro carattere di originalità, alla Quadriennale di Roma era Gian Rodolfo d’Accardi. […] D’Accardi deriva da un’esperienza giovanile che si documenta per uno sforzo di comprensione dei fattori moderni assai autonomo. Prima di tutto ha contato e contano per l’artista la sua sensibilità e il suo modo intimo, intuito, vegliato e espresso con sincerità. Questa sincerità afferma in d’Accardi un’evidente visione romantica che accorda motivi preminenti al sogno a un lirismo lieve, e talvolta fragile, che possiede l’animo creatore dell’artista e determina lo stile e la forma. Vista di primo acchito la pittura di d’Accardi interessa chicchessia. È l’arte di un immediato piacere, elegante, vivida che pone il proprio interesse in motivi di fantasia, molto garbata al primo vedere, ma che poi si rivela di reale interesse a un esame critico approfondito.

Il pittore sente la natura in accordo con un suo lieve modo visionistico di interpretarla. In questi paesaggi, lirici e tremanti di un’intima commozione, tutto procede da un delicato vibrare della ispirazione che poi si rassoda in motivi precisi di colore, di gusto e di vera costruzione. Il colore è schietto e si determina in una materia assai nobile che per essere consistente non perde tuttavia la dote di restare lieve e di non diventare torbida, o opaca. Il gusto si vede soprattutto nelle nature morte. Più di una fra esse merita titolo di raffinata pel sentimento intimo dello stile che la muove e la esprime. Per esempio quella con bottiglia, candeliere, arancia e uova appare di netta intensità espressiva e blocca valori che non sono decorativi, ma intimamente pittorici. È un mondo plastico vigoroso e netto quello che il pittore instaura in una delicata precisione di rapporti.

Certo la vera originalità di d’Accardi più ancora che nel paesaggio puro e semplice, che tuttavia ha in questa mostra manifestazioni importanti, si vede in quelle più complesse composizioni in cui la natura è come invasa di elementi di altra indole, uomini o cavalieri, che le impongono un certo carattere mitico. Non mitico al modo di una mistica poesia rupestre e essenziale che ponga l’umano dinanzi alle forze tetre della natura intesa come entità inabitata o respingente l’umano, ma piuttosto al modo di un lieve e lirico sognare onde il mondo animale e umano si condiziona alla natura in una specie di fraternità spirituale.”

BONARDI, Dino (1943, 6 giugno). Artisti che espongono. Gian Rodolfo d’Accardi alla Galleria Como. La Provincia di Como.

Luciano Budigna (1960, 1970)

“D’Accardi ha lo studio alle soglie della periferia industriale e mercantile di Milano […]. Siamo andati a trovare il nostro pittore, per scegliere i quadri di questa mostra, alcuni giorni fa: nella notte aveva nevicato, la città era stata bianca per qualche ora. Ma, quando arrivammo nella zona del suo studio, sull’asfalto la neve era già fango brunastro e il cielo aveva la solita luce scialba e cinerina. D’Accardi cominciò a mettere i quadri sul cavalletto: e in quel luogo, in quella giornata che più avversi alla gioia del colore non si sarebbero potuti immaginare, ecco il canto spiegato, vivo, vigoroso, amorosamente e sapientemente modulato della pittura: della pittura autentica, senza aggettivi, senza ismi, che, ogni volta che la incontriamo, ci dà un’emozione unica, insostituibile e inconfondibile.”

BUDIGNA, Luciano (1960). Presentazione. In Gian Rodolfo d’Accardi. Centro Artistico San Babila, Milano.

 

“A osservare con la debita attenzione l’opera pittorica di Gian Rodolfo d’Accardi (cominciando magari da quel suo primo quadretto dipinto ai Giardini Pubblici di Milano esattamente quarant’anni or sono, per finire con le grandi, vigorose, freschissime pitture di questi ultimi mesi) si è portati, quasi necessariamente, a un’approfondita considerazione […].

Proprio per il fatto di essere rimasto così a lungo, e non senza sofferti turbamenti, al di fuori di un discorso (di un dibattito, talvolta di un battibecco) culturale, che era necessariamente anche suo, per aver dovuto rinunciare al combat intellettuale ed estetico (alla rissa, magari alla gazzarra) in cui avrebbe legittimamente potuto pretendere una parte di protagonista, d’Accardi viene a trovarsi oggi in una posizione di singolare privilegio e può, senza iattanza né ambigui revanscismi, in un pacatissimo redde rationem, presentare alla storia dell’arte i molteplici, preziosi documenti di credito accumulati in tanti lustri di paziente, silenziosa, fervidissima fatica. […] E dunque, a voler azzardare una definizione, si potrebbe asserire che la pittura di d’Accardi, il suo messaggio poetico, la ragion d’essere più vera e segreta che la muove e la connota sono, intenzionalmente, deliberatamente, un’autentica consolazione al «male di vivere».

Certo, ogni opera d’arte raggiunta è anche questo; ma in d’Accardi è soprattutto, forse addirittura esclusivamente, questo: un gruppo di bambini incontrati per caso sulla via al ritorno dal funerale di un proprio caro, un profumo improvviso in un’ora squallida e affocata, l’inopinata risposta gentile a un’aggressione stupidamente rancorosa.

Non che abbia molta importanza o significhi davvero qualcosa, ma d’Accardi, a conoscerlo di persona, con quel suo sguardo di fanciullo timido e appassionato, quel sorriso incredibilmente dolce, quei modi pronti e apparentemente arrendevoli (ma, dietro a tutto questo, non sarà difficile intravedere un rigore morale, persino una durezza quasi giansenista, che non disarmeranno mai) dà, nella dimensione umana, la stessa sensazione che un suo quadro offre in quella estetica.

A questo punto sia consentita la ripresa di alcune annotazioni che, nel corso di un’ormai ultradecennale frequentazione del pittore, hanno cercato di diminuire, per chi scrive, il debito di riconoscenza acceso dal suo lavoro.

Si parlava allora di una pittura fatta di luce e di spazi, di segni e di colore, di immagini naturali e di fantasia immaginativa, d’amore della vita e d’intelligenza del mondo, anche di grande pazienza o di lunga, sagace esperienza.

L’indicazione, si diceva, che Gian Rodolfo d’Accardi continua a fornire (dall’autorevole posizione di una inesausta felicità creativa, ai dubbi, alle ambiguità, alle tormentose problematiche che sospendono lo sviluppo di tante vocazioni artistiche d’oggi) è pur sempre quella di un liberissimo, ma imprescindibile rapporto con la natura visibile.

La luce racchiusa in un quadro potrà diventare «mentale» fin che si vuole (non si può certo dar torto a Leonardo), fin che si vuole la resa delle immagini potrà essere ridotta all’essenzialità segnica (perché non devono aver ragione Kandinsky o Klee o Kline o Hartung?); ma l’emozione o l’idea in cui la pittura affonda le proprie radici dovranno di necessità situarsi nell’area di una realtà universalmente, anche se non superficialmente, intellegibile.”

BUDIGNA, Luciano (1970). Presentazione. In Gian Rodolfo d’Accardi. Mostra Antologica (19301970). Galleria d’Arte Cortina, Milano. Milano: by Renzo Cortina – Galleria Cavour–Cortina.

Dino Buzzati (1970)

“Il colore non sta mai fermo nei dipinti di d’Accardi, specialmente nei suoi boschi, parchi, giardini. Le galoppate frequenti dei cavalli sotto le piante sono in fondo superflue per darci il senso della vita, della vibrazione, dei fremiti, in quei teatri vegetali. Poco importano, mi sembra, le definizioni se espressionista, se neo–«fauve», oppure semplicemente lirico. All’origine meridionale si può attribuire il vigore, il burrascoso impeto delle sue pennellate, dei suoi verdi contrappunti. Ma il risultato, la visione cioè a noi offerta, non ha proprio niente del sud. Perfino qui da noi in Lombardia è difficile trovare degli alberi così intrisi di così solenne e umida luce. La profondità degli antri vegetali, le architetture arboree, la freschezza delle sue alte fronde, le metamorfosi dei raggi negli intrichi di rami e di foglie, non sono descritti con preciso disegno ma risultano dal gioco dei blocchi cromatici, che si mescolano e si intersecano intrepidamente, dando appunto quella sensazione vitale che di d’Accardi è la migliore caratteristica. Non soltanto ai boschi, intendiamoci, si adatta questo suo febbrile linguaggio. Si notano anche dei fiori altrettanto nervosi e ben scanditi, un felice paesaggio invernale balenante di gelide nevi, che è tra le cose più belle, un Canal Grande dominato da un glorioso palpitante cielo, e uno strepitoso vortice di colombi dinanzi a San Marco, dove l’artista ha messo in azione tutte le sue mitraglie.”

d. b. (BUZZATI, Dino) (1970, 11 giugno). Mostre d’Arte. Gian Rodolfo d’Accardi. Corriere della Sera.

Carlo Ceruti (1939, 1942)

“Nel colore d’Accardi trova il suo linguaggio primo, e lo usa con un gusto vario e pur sempre equilibrato come se ogni volta rinnovasse le gamme della sua tavolozza conservando e anzi raffinando la sua secreta virtù degli accordi delle prospettive aeree. Al d’Accardi poco importa l’aspetto, per esempio, dei paesaggi così come li scopre andando per le campagne lombarde. Prenderà se mai degli spunti più che degli appunti; sul vero accetterà se mai la lezione di equilibrio e di armonia che gli dà la natura: ma solo nel ricordo egli troverà le linee, i volumi che più servono a dare corpo ai suoi colori, solo nel ricordo si sentirà in quella sua atmosfera emotiva che egli riporterà nell’opera dove i particolari del vero vengono assorbiti in una visione totale e inscindibile. Ora in una tale ispirazione contenuta tutta nell’unità, proprio in questa sua possibilità centripeta d’arte, meglio può d’Accardi evocare le immagini pittoriche della sua fresca tavolozza; allora il colore gli canta sulla tela con accenti di novità, con vibrazioni musicate, e le forme e gli aspetti gli escono dalla memoria con una stagione di grazia si ricompongono nell’opera come in una favola.”

CERUTI, Carlo (1939). Mostre Romane. D’Accardi – Cappello da Bragaglia. In Meridiano di Roma.

 

“È carattere peculiare dell’Arte di Gian Rodolfo d’Accardi l’essere immersa in un’atmosfera di sogno, luci e colori espansi o addensati nei brividi di un’«aura» che non è quella greve che l’uomo respira, ma quella cristallea — purissimo fiato di lontananze dove solo lo spirito approda — che vibra e si muove nelle aurorali freschezze dei miti, delle vicende soprannaturali. Dentro, le linee non si profilano nella marcata evidenza delle cose ben definite e consuete alla nostra giornaliera esperienza: ma si modulano — segni musicali anch’esse — in armonie essenziali di luci e colori.

Trasfigurazione lirica. Valori più spirituali che tecnici: vi affiora e si irradia — in ritmi intraducibili — il pathos, a confusione del calcolo. Naturale, quindi, che l’iconografia non abbia ivi esatti e reali riscontri, ma vi appaia per una trasposizione istintiva, tutt’altro che calcolata, di elementi materiali nella spiritualità: il pensiero che si traduce nella moderna pittura non ha riferimenti col mondo esteriore; esso è tutto nei commovimenti e nelle visioni di una interior vita. In questa sua pittura d’Accardi porta la segreta novità del suo linguaggio cromatico ricco di passaggi e di toni e di gradazioni. I verdi (e son davvero tanti nei dipinti del nostro), i rosso–bruni, i bianchi cangianti in velate iridescenze, i gialli, gli azzurri, e tutte le ignote mescolanze palpitano, cantano, si illuminano in un clima sonoro fra le pause di un vegetale silenzio; si compongono, si avviluppano, si disciolgono nelle festose eleganze d’immagini nate quali motivi pittorici e non quali soggetti.

In d’Accardi il colore è talvolta un punto esclamativo, cioè una nota di stupore cromatica che accentua — nella necessità di esprimere i più sottili trasalimenti della propria emozione — il motivo iniziale del dipinto, comunicando così al linguaggio cromatico–plastico delle sue composizioni una più esaltata temperie: qui è la risoluzione della sua pittura non mai empirica.

Ed è sua virtù l’approfondire nel segreto dei passaggi — col mezzo di una grafia di succose pennellate dove una maturanza di frutti pregni e polposi vi trascorre calda come un sangue giovanile —il suo «sentimento pittorico» che solo tende ai più puri valori di pittura, talché non vi ha sordità alcuna dentro la sua tela: la forma (questa terribile presenza delle cose!) gli si crea col colore e nel colore prendendo da questo risalto plastico e dando a questo corpo.

Chiara è in lui la visione di un mondo lirico che non ha rapporti col nostro: egli vede cavalli liberi nei loro vegetali paradisi, amazzoni a convegno, cavalcate estrose di leggendari personaggi attorno a laghi senza nome e per boschi remoti (nelle quali invano si ricercherebbe un riferimento mondano e temporale): la loro terra non è la stessa dove l’uomo vive i suoi giorni mortali inteso alle grandi e piccole cure dell’esistenza: essi vengono da lontane latitudini.

Non basta. Queste cavalcate, queste variazioni su di uno stesso tema, non possono dare in chi le vede l’impressione di una identica cosa ripetuta di proposito, proprio per una intrinseca virtù spirituale. Il pittore le contempla in sé, le sente presenti nelle sue non decifrate memorie; e di volta in volta le ricrea dalla sua interior visione sulla tela non come gli apparirebbero in una mondana riunione, ma come le sogna sullo sfondo surreale delle proprie emozioni, con altri aspetti ed altri ritmi, senza necessità di modelli né di ricorrere a prendere appunti e schizzi a spettacoli originali. Queste opere gli nascono, insomma, dal di dentro, e hanno pertanto una vitalità che perderebbero s’egli ritraesse le scene dal vivo, paesaggi e figure. Il pittore non fa altro che immaginare, e il pennello ricrea le forme e le prospettive secondo un’intima urgenza di manifestare in colori e in luci le proprie commosse astrazioni, dove è tutta richiamata l’anima. Quanta felicità! In questi dipinti egli si «libera»: finalmente gli vien fatto di trovare l’ambiente e il clima dove può scordare, in eternità spaziando.”

CERUTI, Carlo (1942). D’Accardi: monografia. Modena: Guanda Editore.

Raffaello Giolli (1939)

“Noi amiamo tutti i pittori, pur che siano — e non è frequente — degli artisti: quelli che battono e ribattono sulla tela credendo di costruirvi puntualmente delle cose e quelli che invece di fermarsi sul punto si abbandonano al ritmo. L’abbandono può far perdere per via, ma anche le ostinate messe a punto possono acciecare; ogni modo della vita ha il suo pericolo: ma il ritmo può esser un filo d’Arianna per impensati labirinti.

Questo filo ha colto d’Accardi che, da quando dipinge, così continuamente vaga per boschi di sogno tra cavalcate misteriose.

Nessuno vorrà dire ch’egli insiste nello stesso tema. Né i cavalli né gli uomini né le conchiglie si esauriscono in uno o in cinque quadri. D’Accardi non rifà gli stessi cavalli: continua a vivere nella stessa atmosfera.

Ma parlar di sogno è, anche questo, un equivoco. Non è, quella di d’Accardi, una pittura che giochi sulle fughe; purtroppo si parla ormai di evasioni, che non hanno neppure il merito di quelle, avventurose e temerarie, dei forzati: soli pretesti invece di evasioni letterarie, di nuove retoriche.

La pittura di d’Accardi infosca il suo quadro con gli alti fusti degli alberi che chiudono il cielo: s’intessono toni saturi di verde: i tronchi rapidi a volte scintillano serpentini dentro la cortina densa di spesso verde: sempre, nel basso, si apre uno spiazzo, una riva di fiume, il cerchio d’un lago o d’una pista; e i cavallini, chiari, bruni s’allineano, s’incrociano, piccole nervose anime inquiete. Raramente sopra appare il cielo, anche se nel basso del bosco vagano coppie di uomini e donne. È come se s’entrasse a vivere in un altro girone. Son diventati diversi anche i rapporti di misura degli uomini e degli alberi, dei cavalli e del cielo. Una volta questi cavallini sono in un paesaggio d’alberi senza foglie: sotto è neve, sopra il cielo fosco: e i tre cavallini si sono avvicinati come anime che sentono l’ora del mondo: sono al centro dell’universo. Il colloquio assume un valore mitico.

Una raffinatezza di sensibilità qui cerca continuamente, anche se dipinge una figura di donna o una natura morta, le vie d’un linguaggio sensibile. E anche se il pittore scrive (Approdi, n.d.r.):

In lontananze più non mi ricordo
e approdo trasognato.
A declivi di bosco m’incontro
ritti di pini in speranze
di felicità antiche.
Le notti nell’assenza
hanno rapito fiori.
Ora in dimenticanze
foglie ai prati
una sull’altra, stanche.
È dolore al passo morto.
Non mi ricordo
e cerco somiglianze
in camini di pioggia.

Anche l’accordo della sua emozione poetica dà ragione all’accento di questa sua pittura.”

GIOLLI, Raffaello (1939). Presentazione. In Gian Rodolfo d’Accardi in una in una mostra nelle nostre sale: catalogo delle opere. Galleria d’Arte Genova, Genova.

Giorgio Kaisserlian (1955)

“Uno dei meriti precipui di d’Accardi è proprio quello di saper recare l’oggetto ch’egli rappresenta sino a quell’accensione lirica e coloristica che gli è propria. Sia che egli rappresenti dei cavalli soli ed abbandonati nei boschi autunnali, sia ch’egli ponga sulle sue tele pesci o saltimbanchi, le sue forme in ogni caso sembrano essere solo dei puntelli e delle indicazioni, che debbono preparare quelle dolci melodie di colori che fremono in lui quasi suo malgrado.

Quello che sembra essere il centro vivo dell’opera di d’Accardi e che appare evidente in certi fondi, sapientemente orchestrati, delle sue nature morte, sono certi accostamenti di colore disposti in modo tale da creare una continuità lirica tra gli oggetti ch’egli rappresenta: alberi, figure umane, ed animali diventano così note ed accordi di una dolcissima melodia.

D’Accardi non aggredisce gli oggetti del mondo visibile come se volesse cavar fuori da ognuno un volume denso e compatto, egli vorrebbe anzi farci sentire la forza d’espansione degli oggetti del mondo naturale, affidando soprattutto al colore il compito di rivelarci le forme.

Poeta degli autunni melanconici che sembrano scendere sui prati dall’alto degli alberi carichi di foglie appassite, egli ci rivela una natura, satura di ricordi e di rimpianti. I suoi alberi arrugginiti talvolta appaiono più umani e familiari dei personaggi e dei cavalli che si aggirano fra di essi.

Quando d’Accardi ripensa motivi noti della pittura contemporanea, i suoi saltimbanchi sono figli di quelli di Cézanne e di Picasso, egli obbedisce pur sempre solo al suo estro: e quella dolcezza appassita che attraversa come un’onda lirica le sagome dei saltimbanchi che lavorano o che sognano si rivela simile a quella che freme nelle foglie dei suoi alberi autunnali.

La vita dell’arte è simile, in fondo, ad una grande sinfonia ove vi è di tutto: squillo imperioso di trombe, adagi maestosi, allegri travolgenti, cupi accordi finali; ma vi sono anche frasi dolci che incantano come sospiri di un’anima.

D’Accardi è come una frase musicale dolce ed inconfondibile–sospiro malinconico d’un’anima.”

KAISSERLIAN Giorgio (1955). Presentazione. In d’Accardi. Mostra Antologica (opere datate 1950–1955). Galleria d’Arte S. Fedele, Milano.

Mario Lepore (1965)

“Da molti anni la pittura di Gian Rodolfo d’Accardi mi è familiare. Appunto per questo e perché ne conosco gli svolgimenti — come del resto conosco da tanto tempo anche lui e gli sono buon amico, perché è una cara persona — dovrei più esser disposto a osservarla con un certo distacco che a lasciarmene sedurre: tanto più che faccio, bene o male, il mestiere del critico.

Viceversa, quando guardo i dipinti di d’Accardi, quel che non mi tenta affatto è proprio analizzarli. Non perché non meritino un esame approfondito, ma perché mi piacciono (magari uno più uno meno, ma mi piacciono) e stabilisco con essi una così immediata comunicazione che mi infastidisce interrompere il mio colloquio con essi per esercizi filologici, estetici, tecnici. Comprendo che questa è una posizione pericolosa e che magari rischio d’apparire sempliciotto. Ma d’altra parte la pittura di d’Accardi sgorga così di getto, naturalmente e unitariamente, che ho la segreta convinzione di non aggiungere nulla al mio piacere a star lì col bilancino a misurare i pregi, che sono molti e i difetti che sono pochi. Quest’arte ha d’altra parte la fortuna, così rara ai nostri tempi ermetici e confusi, d’esser tutta palese, pur in certa sua aura misteriosa e fantastica, e limpida nei sentimenti, nelle invenzioni, nei modi espressivi. Il fatto è che d’Accardi si cala dentro la sua pittura tutto intero come è. Col suo temperamento romanticamente focoso, immaginoso, sensuale, ma anche tenero e nostalgico, ma anche colto e raffinato. Colto a quel punto vero in cui non c’è tentazione d’ostentare cultura o cerebralismo (ma si sente che l’intelletto ben nutrito di conoscenza opera come spontaneamente le sue scelte e regola senza parere l’istinto, pur lasciandolo galoppare); raffinato a quel punto vero in cui non si schivano certe cose, ma con un tocco, una sfumatura, un nonnulla, impeto, rudezze, esuberanze, sensualità sono digrezzate, innobilite, armonizzate senza stridori con quanto v’è di delicato e prezioso nell’insieme, valorizzandolo. […]

Arte oggi spesso tempestosa e sinfonicamente spiegata, con un «fiato» che non viene mai meno da un capo all’altro della tela, su ampie superfici; ma che talvolta, limitandosi in minori dimensioni, non perde, raccogliendosi e pacandosi in meditazione, lirismo e intensità. Arte ch’è frutto maturo di un lungo e appassionato travaglio, di un talento pittorico schietto, che non ha mai seguito le mode e ha saputo essere sempre del proprio tempo. Arte, infine, che si sostanzia di una capacità di poetare con fervido abbandono del sentimento alacrità della fantasia e viva forza espressiva.”

LEPORE, Mario (a cura di). (1965). Presentazione. In d’Accardi: quaderno delle opere. Galleria d’Arte S. Maria di Piazza, Busto Arsizio. Milano: Tipografia Giuseppe Muggiani.

Giorgio Mascherpa (1965)

“Da più di trent’anni sogna puledri sfrenati nei boschi immaginari della sua fantasia; da sempre (sull’onda di un ritmo da circo dell’ultimo Rouault o d’una cadenza di Schoenberg) immagina «Pierrots lunaires» intenti a un concerto notturno. Sono i termini di contrasto della sua vita, l’impossibile libertà da un lato, l’amara recita per sopravvivere a un mondo che non rispetta l’uomo, dall’altro. Sarà bene precisare subito, a questo punto, che nel suo mondo, d’Accardi ci vive benissimo e non certo da egoista ché, anzi, gli altri li ricompensa con i suoi colori squillanti e li fa partecipi della gioia festosa della sua visione. Tutto questo da sempre, con esemplare coerenza spirituale e lo si prova se appena si esamini la storia della sua vita artistica.

Diciannovenne appena, giusti quarant’anni fa, giungeva dalla natìa Sicilia a Milano e subito il suo occhio curioso, vivace, mobilissimo avvertiva i fatti pittorici più attuali del momento. […]

[D’Accardi] non poté non risentirne e caricarsi di quelle novità espressive pur ponendo subito le premesse certe della sua personalità che volgeva, nell’intimo, a soluzioni più calde, a rapporti tonali più vivaci, a reticoli formali più densi d’umori. La sua natura mediterranea già s’andava sovrapponendo alla capacità architettonica dei pittori del Nord.

Maturarono dunque in questo bozzolo i quadri del suo primo decennio, curiosamente indipendenti seppur legati formalmente ai due opposti del chiarismo e di certe definizioni più pungenti e materiche proprio del primo periodo di «Corrente». Il suo era un mondo di nostalgia fremente e struggente al tempo stesso, un bisogno sempre crescente di tuffarsi entro le sensazioni ispirate dal colore, di giungere con bruciante rapidità alla definizione della forma prima ch’essa si spenga nel visionario sogno che l’ha creata.

Ovvio che, con tali premesse, una volta maturata la sua tecnica e adeguatasi la medesima alle sue necessità espressive, d’Accardi sarebbe giunto ad una soluzione più istintiva del quadro: e questo si è verificato all’incirca, negli ultimi quindici anni, da quando dipinge quadri di colore più puri, di accostamenti più ardenti, di scioltezza narrativa sensibilissima. Certo anche in questa evoluzione e in questo raggiungimento espressivo della sua personalità, d’Accardi si mantenne sorprendentemente fedele alla sostanza poetica del suo mondo d’un tempo; fedele nei temi e, soprattutto, nella pulita verità del colore; e come nella sua età giovanile v’erano quadri idilliaci e altri invece tempestosi, opere «tonali» e altre definite con rapidità istintiva, così oggi ecco vicino a composizioni di gran mole dove s’avverte l’urgenza espressiva della materia e la linea si campisce in spazi perentori e violenti, ecco dunque teneri paesaggi sognanti, tonali, capaci d’evocare solitudini e toccanti silenzi dove si respira meglio e pare di toccare la vita.”

MASCHERPA, Giorgio (1965). Presentazione. In d’Accardi: quaderno delle opere. Galleria d’Arte Pro Padova, Padova. Milano: Tipografia Scotti.

Giovanni Mussio (1933)

“Giovanissimo. G. R. d’Accardi è alla sua terza “personale”, dopo aver partecipato alla terza ed alla quarta mostra sindacale di Torino, all’Esposizione di Firenze e di Montecatini del 1931 ed a molte  altre manifestazioni minori. Siciliano, di Palermo, è a Milano fino dall’infanzia ed il paesaggio che dipinge è tutto milanese, la periferia, specialmente di P. Vigentina e Lambrate; la campagna “ambrosiana” alla quale il Lambro largisce angoli di poesia e di suggestione, che sono in pochi a conoscere giù da noi. D’Accardi li ha “scoperti” e li ama e si indugia volentieri a ritrarli, con quella sua pennellata saggia e accorta, con quella sua colorazione fresca e piena, con quel suo dipingere “particolare”, che riesce a raccogliere in pochi centimetri di quadro un paesaggio, senza fine, che da, insomma, lo sfondo immenso che, oltre gli alberi, oltre le case ed i campanili, oltre le nebbie e le piogge ti si discopre dinanzi all’occhio, che sa penetrare ed indagare. E quei suoi cieli! E quegli orizzonti! Ogni “ora”, ogni “momento”, una gamma nuova, un’interpretazione nuova, un delizioso fantasticare di toni e di colore, nell’assieme sempre pieno di efficacia e di gradimento. […] Le possibilità di d’Accardi sono anche chiaramente indicate nei due o tre saggi di figure, specie ne La lettrice, e nei Fiori, dove anche la poesia che qualche volta tenta, seduttrice, il giovanissimo pittore, vanta la sua collaborazione spirituale, preziosissima sempre, che l’arte non dev’essere soltanto esperimento e ricerca di “forme”, e fantasia e capriccio, ma essenza e possanza di vita, in sincerità di “spiriti”. Il “verso che non crea”, insomma, applicato al quadro ed alla statua, il “verso” che non piace a d’Accardi ed a molti con lui.”

g. m. (MUSSIO, Giovanni) (1933). Presentazione. In Mostra personale di Gian Rodolfo d’Accardi: catalogo delle opere. Casa d’artisti, Milano.

Ugo Nebbia (1950, 1951)

“Gian Rodolfo d’Accardi, palermitano, trapiantatosi dalle nostre parti quando era ancora in fasce e oggi, sulla quarantina, in pieno fervore di lavoro e di vita fra Milano e Cernobbio, conferma con questo suo disegno — che chiama confessione d’un momento sereno, senza acrobazie o salti mortali — tutto il diritto che si è da tempo conquistato d’abbandonarsi, quando dipinge, alla più libera, mai però spensierata fantasia, di cui sono così tipiche esponenti certe sue composizioni di sottilissimo gusto, fra il fiabesco e lo scenografico, dove la commedia degli uomini e delle cose, o il guizzo di variopinti destrieri s’intonano, ai margini della realtà, sopra i più sereni spunti di palpitante trasfigurazione poetica della natura.”

NEBBIA, Ugo (1950, 19 gennaio). Bianco e nero del giovedì. Il Tempo di Milano.

 

“Caro d’Accardi,

non vorrei mettere assieme per te uno dei soliti preamboli sulla soglia di questa mostra con cui ti sei finalmente deciso ad uscire un poco dalla tua operosa solitudine. Naturalmente, ciò non significa che non me la senta più d’essere uno dei tuoi più convinti mallevadori: meno ancora, che non voglia oltre approfittare d’una così favorevole occasione, per fare a mio modo il punto nel sempre più travagliato pelago della pittura dei nostri giorni. Significa solo che ho tanta fiducia nella chiarezza dell’odierno tuo rinnovato colloquio con la gente, da ritenere più che mai inutili certi ingombri discorsivi, visto come, più che favorire, questi rischiano sovente di violare tutta la simpatia che merita l’espressiva schiettezza d’un discorso pittorico affabile e sereno come il tuo. Non cerco, insomma, una scappatoia, se mi limito a ricordare, così, a tu per tu, fino a qual punto ti ritrovo coerente all’intima poeticità del felice tuo temperamento d’artista: voglio dire, a quei sani abbandoni di sentimento e di fantasia che meglio non lo potrebbero definire; a quanto da esso così direttamente scaturisce, per quell’istintiva tua sensibilità, che l’esperienza ha sempre più raffinato dal lato tonale e compositivo, consentendole la più schietta ed estrosa indipendenza formale, senza mai però disperderla in qualche divagante intellettualismo. Significa, insomma, che con te ci si può sempre intendere, per non dire rasserenare nel pericoloso caos che ci circonda, e di cui proprio l’arte sembra offrirne i sintomi più preoccupanti.

Che ci sia ancora salvezza sulle posizioni dove sai così validamente resistere, senza cedere all’insidia di certi mimetismi e di certe divagazioni, lo mostrano sempre la libertà del tuo così aperto linguaggio pittorico, la contenuta fluidità del tuo pennelleggiare senza malizia e senza vane forzature d’espressione; lo stesso ritorno a certi tuoi tipici motivi, dove una specie di favola s’intona spesso così scopertamente all’incanto di quei tuoi spunti paesistici; quel tuo poetico modo d’evadere dal vero filtrandone l’intima essenza; quel cordiale, quasi bonario, modo di rivelarci senza equivoci un mondo tutto tuo, dove forma e colore palpitano d’una non meno tua inconfondibile armonia: tutto quanto, insomma, potrebbe ancora insegnarci che il mondo d’un’intellegibile pittura non è del tutto perduto fra le pericolose e, sia pure, affascinanti premesse d’una era atomica anche per l’arte.

Ho detto salvezza; pur non nascondendomi com’è sempre più ardua la resistenza sopra certe posizioni, e come può essere quasi temerario pretendere che la poetica tenerezza d’artisti come te possa ancora essere buona guida contro ulteriori dispersioni. Lascia allora che in questo mi associ all’intelligente presagio già fatto sul tuo conto da un caro scomparso come Raffaello Giolli, il cui ricordo mai come in questi giorni sembra stringerci il cuore, come d’una coscienza per sempre perduta.

Restiamo dunque così, nella buona fiducia che non da oggi ci hai destato. Restiamoci; non fosse altro, perché sappiamo benissimo che non sarai certo tu a propinarci qualche altra «serata», per spiegare o per farci spiegare come bisognerebbe oramai pensarla sull’arte di oggi e di domani, visto fino a qual punto badi solo a farci sentire, anzi vedere, quello che il cuore ti detta. Restiamo d’accordo, ripeto: sia pure soltanto per la fede che seguita a illuminarti nel non facile cammino che continui a battere.

Essere d’accordo: intenderci, dico, senza i soliti artifici di parole. Una specie d’augurio, insomma, che faccio a te, come a chiunque continua a credere nella beata illusione dell’arte.

Tuo Ugo Nebbia”

NEBBIA, Ugo (1951). Presentazione. In d’Accardi: quaderno delle opere. Galleria d’Arte S. Fedele, Milano. Milano: Tipografia Ghirarduzzi.

Biagio Pantaleo (1972)

“Artista fermo e incontaminabile come una roccia che supera e vince l’usura del tempo e la forza degli elementi. Nell’arte di d’Accardi sono rappresentati quasi tutti i movimenti spirituali. È indifferente verso i “ modernisti” ad ogni costo. La sua pittura è il risultato della sua volontà e della sua profonda coscienza morale che, sollecitata dallo spirito, intreccia un discorso pittorico di verità, di libertà, di luce vivificatrice ed inebriante che egli sa traslare sulle tele; un ideale di sintesi creativa illuminante; un discorso poetico che abbraccia arte, cultura e lirismo proiettati in una musica d’assieme di arcane melodie rivelate dai suoi multiformi giochi di riposanti lirici colori vibranti di spirito solare. D’Accardi, in ogni sua opera, rivela, con accorata reminiscenza, le armonie della sua Sicilia. Ama la semplicità, e con chiara nostalgia porta nel cuore l’eterno fluttuar delle sicule acque, con scolpite nello sguardo meditativo, il vortice di Cariddi e lo scoglio di Scilla.

Attraverso le sue tele si notano le emozioni suscitate, in lui, dai ricordi e dagli infiniti episodi artistici e culturali avvenuti nella sua terra natia che, come serto di vermigli fiori, galleggia fra le meravigliose azzurre acque di tre mari consacrati da quella civiltà mediterranea imperniata in una triade di valori universali: Greca–Latina–Araba.

Tutta l’arte di d’Accardi è una colossale opera evocativa. Il dipinto La Battaglia risente della leggenda dei Ciclopi, delle gesta cavalleresche del romanticismo che persiste in un sogno chimerico suscitando la cocente satira del Cervantes. Confronto di mondi diversi. L’uomo dell’Arcadia che a cavallo corre verso il sacrificio, tronfio ed umoristico per entrare nella farsesca avventura dell’infausto Gano di Magonza e l’eroe di Roncisvalle e Lancillotto esaltati come personaggi eterni e difensori dei grandi ideali. Nel dipinto Paesaggio nel gioco di colori riflessi nell’arco boschivo caro alle ninfe delle Driadi, evidenzia un soave fluttuar di luce di garbata fusione e par che senta il fascino del poeta del dolore, il delicato pallor de “La ginestraˮ l’immensità de “L’Infinitoˮ. I suoi fiori di timbro morandiano hanno parvenza metafisica e riposante. La bellezza della natura gli appaga lo spirito ma rifugge da tale immediatezza e si cimenta sempre più nella ricerca di motivi da scoprire.

Anche se in alcune sue opere non tiene conto di una certa tradizione, egli non cade nel Dadaismo. In lui emerge una forza istintiva di potenza lirica e culturale che lascia pensare che in lui c’è una cultura innata favorita da reminiscenze lontane: teatro la sua Sicilia. Egli ha una forte personalità cristiana sia pure con qualche vena eclettica. Fissa con grazia venature espressionistiche, evidenziando la libera espressione del suo mondo interiore che non può essere veduto come egocentrico ma come espressione armonica di un mondo morale che addita la verità trascendente. Il suo simbolismo non è di stampo francese “Gauguin” il quale si spingeva verso la più sfrenata libertà simbolista senza limiti. D’Accardi nei suoi accenni simbolici tenui e delicati, quasi ancestrali, si esprime in base al suo preciso stato d’animo di garbata logica morale in una florescenza di colori discorsivi propri della sua “Conca d’oro” frammentando l’impassibilità dell’opera d’arte senza ricorrere a Mallarmé, a Keats o alle trasposizioni di motivi poetici alla Schlegel, perché d’Accardi è anche poeta. Egli non segue alcuna corrente ma il suo intimo sentire, che sa di universalismo cristiano, chiaro nelle sue tele sia pure misteriose e fantastiche. È così che egli, in un’effusione di realtà e fantasia inquadra ed esprime la forma ideale della natura armonizzando visibile e invisibile. La costante ricerca del d’Accardi è un dramma che trova la sua fonte primaria nella sua imperturbabilità morale.”

PANTALEO, Biagio (1972, 5 novembre). Luce e poesia nella pittura di d’Accardi. L’Ordine.

Agnoldomenico Pica (1963)

“Sono giunte «da lontani viaggi nuvole in sogno / per sbarco a primavera di fanciulle sul prato / del lago».

L’annunzio ci è dato dallo stesso d’Accardi senza che forse si ricordi («In lontananze più non mi ricordo») di essere anche, egli medesimo, l’autore dell’evento.

Le fanciulle sbarcarono, intorno al 1939, nel Bagno di amazzoni, un’opera che si potrebbe assumere come una sorta di affascinante sinossi della pittura nella quale, in quegli anni, d’Accardi interamente si versava.

Un trascolorare di verdi teneri, cupi, brillanti, che formano la cortina spessa del bosco, rotta dai bianchi e dai neri dei cavallini, un fiorire di azzurri e di rosa e di biondi: le fanciulle che si bagnano o si riposano sul prato di giada, una pittura magra, puntuale, senza sbavature né grossezze di materia. […] 

È ancora il tempo in cui d’Accardi insegue una sua dolce leggenda vagamente georgica: boschi, brughiere, cieli e cavalli. Cavallini bianchi e neri, nervosi, sensibilissimi e gentili, da gioco degli scacchi, da fiaba di Andersen.

Questa pittura, se ne era accorto Giolli, poteva riguardarsi quasi come una icastica trasposizione della poesia di d’Accardi. Era, anzi, la medesima vibrazione lirica che variamente si esprimeva nella composizione di suoni o di colori in ritmi che erano eguali. Sugli alberi dei boschi amorosamente dipinti, boschi incredibili intrisi di un umidore di stelle, «altro sole verrà / a inondarli di foglie / e saranno ombre / di fresco per il quieto / tubare dei colombi».

E «altro sole» è venuto, altre foglie sono cresciute, ma non a formare una coltre immemore di sogni, un giardino di silenzi musicali, un idillico recesso ombroso.

Diremmo che d’Accardi, nella sua opera recente, si è dimenticato ancora una volta: si è dimenticato di dimenticarsi. 

Il sangue, fattosi più denso e ricco con gli anni, sembra essere rifluito più impetuoso e turbinoso in questa nuova pittura, che dell’antica conserva il pudore e la schiettezza, ma ha perso gli estenuati abbandoni e i diafani pallori. I temi ritornano: paesaggi, nevicate, cavalli, figure.

Il vigile senso di una composizione controllata, attentamente calcolata e bilanciata, regge ancora, egualmente, la stesura. Ma gli accordi, di più profondo registro, si sono improvvisamente risentiti in un vigore che prima era ignoto e ora pare esaltarsi, a quando a quando, fino a barocchi furori, in un tessuto alacre e mosso di contrappunti, di toni e controtoni, di dissonanze e di ritmi, in una vivacità ora squillante ora cupamente intensa e conturbata.

I riferimenti da cui siamo tentati sono più alti e lontani di un tempo, e tuttavia sono precisi.

La drammaticità della Crocefissione (coll. Wise), nel ’57, accende squisite reminiscenze arcaiche che si risolvono in accenti autenticamente personali, accenti che paiono placarsi nella maestà arcanamente elementare della seconda Crocefissione (’62’63). Se il Concerto del ’62, con vaghe consonanze ensoriane, e il bellissimo Palio del ’63 rientrano nella vena più tipica del pittore, ci sembra che segrete e come subcoscienti suggestioni da Paolo Uccello traslitterandosi e decantandosi nella Cavalcata del ’62 come nella Battaglia del ’63 abbiano offerto alla leva dell’azione pittorica il fulcro più stimolante.”

PICA, Agnoldomenico (a cura di). (1963). D’Accardi: monografia. Milano: Studio Marina Edizioni in Milano.

Guido Piovene (1939, 1974)

“Tra i giovanissimi, una eccellente promessa, è d’Accardi, con i suoi quadri percorsi da spettri di colori, sembra, più che da colori. Anch’egli ha una sensibilità acuta, estrema, direi scorticata, che trasale al minimo tocco. Gli gioverà molto studio sul vero, anche faticoso ed ingrato, nel quale la sua fantasia trovi legittimità: ma certo farà strada.”

PIOVENE, Guido (1939, 13 aprile). La mostra dei premi dell’Accademia di Brera. Corriere della Sera.

 

“Maturato attraverso una piena esperienza coloristica, che gli consente una pennellata corposa e piumata nello stesso momento, e velature magistrali che si sovrappongono come in un gioco prestigioso, d’Accardi è tornato nella sua isola a raccontarci le sue avventure liriche a contatto con l’intenso respiro dei boschi, le sue fiabe dal vago sapore mitologico e, in definitiva, il suo profondo amore per la natura.”

Vice (PIOVENE, Guido) (1974, 20 febbraio). Piccola Galleria. D’Accardi. La Sicilia.

Michele Prisco (1973)

“Per le mie nozze (parlo di vent’anni addietro), mi giunse in dono da Milano un quadro di  d’Accardi: pittore allora a me, confesso, del tutto sconosciuto. Rappresentava, o meglio rappresenta (perché il quadro è tuttora a una parete del mio appartamento) un concertino di maschere: due pulcinella timidi e gessosi e un arlecchino e un omino in nero, col tubino e la trombetta filiforme, gialla, contro lo sfondo d’alcuni carrozzoni di un modesto circo di periferia e un cielo fra viola e azzurro che pare voglia preludere alla pioggia. E per quanto i toni del colore siano smorzati, e tutta la composizione manchi d’allegria, sempre, di quella tela, mi ha colpito non so quale solare sotterranea e mediterranea vitalità e, al tempo stesso, come un bisogno di affermare, e riaffermare, la necessità di certi valori — l’impegno umano, per esempio, e la presenza della favola, l’esigenza della fantasia — che i nostri anni pare stiano facendo a gara per trascurare e distruggere.

Poi, a Milano, spesso m’è capitato di vedere in casa di amici o di collezionisti altre opere di d’Accardi: ancora concertini ma, più spesso, paesaggi, o fiori, e soprattutto cavallini, piccoli puledri sovente cavalcati da altrettanto minuscoli cavalieri che a volte sembrano centauri e non si sa se più sperduti (come, appunto, Pollicino e i suoi fratelli) dentro certe selve fitte d’alberi altissimi e svettanti (un emblema della nostra condizione esistenziale?) oppure baldanzosamente in marcia alla conquista di qualche tesoro misterioso.

Così ho finito col familiarizzarmi col nome di Gian Rodolfo d’Accardi […]. Il segno di d’Accardi non è un segno tormentato, è vero, ma è il segno e il risultato d’un tormento, e perciò il colore, in lui, non è mai improvvisato, mai visto «prima», meditato, cercato e raggiunto ogni volta attraverso una conquista di linguaggio e di strutture compositive che obbedisce talmente e così totalmente alle intenzioni figurali dell’artista da mimetizzarsi del tutto dietro e dentro la particolare luminosità e aggiungerei musicalità delle sue composizioni. Sarà bene quindi non lasciarsi ingannare o fuorviare da quella gioiosa esplosione di accordi cromatici che vibra nella sua tavolozza e certe volte fa pensare ai fauves: essa è piuttosto il segno d’una nostalgia e quasi il tangibile bisogno di raggiungere la forma, trasfigurandola e persino consumandola, sulla tela, prima ch’essa si dissolva per suo conto nel sogno visionario che l’ha provocata. Ecco perché Guido Piovene scrisse dei suoi quadri che sembrano «percorsi da spettri di colore, più che da colori» e parlò di una «sensibilità acuta, estrema, direi scorticata, che trasale al minimo tocco».

Parole di parecchi anni fa, che si addicono tuttavia anche all’attuale momento di Gian Rodolfo d’Accardi, e sono la riprova e l’indice d’una straordinaria coerenza di artista che, pur affinando e approfondendo, com’è naturale, la sua istintiva personalità nel corso delle varie stagioni operative — dalle esperienze tonali del primo periodo alle successive ricerche di colore e alle più recenti indicazioni in direzione della materia e della grafica — è restato sempre fedele al richiamo della sua voce interiore.”

PRISCO, Michele (1973). Presentazione. In d’Accardi: quaderno delle opere. Galleria d’Arte Schettini Editore, Napoli. Milano: Tipografia Scotti.

Piero Scarpa (1931, 1938)

“È giovane ed è autodidatta assoluto. Da circa due anni si è dedicato alla pittura e già è riuscito a mettere insieme un notevole quantitativo di saggi che rivelano il suo tormento e la sua passione per l’arte. A Milano, ove risiede, il d’Accardi, siciliano di origine e di nascita, è già ben quotato, ed ora, esponendo a Roma, desidera affermarsi come una promessa che non mancherà di far onore alla propria firma.

Chi ha visitato la sua Mostra personale, ordinata nei locali della «Famiglia abruzzese–molisana», al Corso Umberto I n. 300, ha avuto modo di comprendere facilmente che non si tratta della solita esibizione di un pittore che espone con la speranza di far danaro, ma della presentazione di un artista non ancora deciso circa la strada che deve percorrere perché ne ha dinanzi a sé tante e buone, tuttavia dotato di tutte le qualità indispensabili per proseguire nel cammino bene iniziato.

Il pregio principale della pittura del d’Accardi è la sincerità che raramente nasconde l’ingenua espressione di un onesto neofita, tanto gradita in arte, perciò nessuna bravura tecnica, né propositi di seguire questa o quella maniera vengono ad intralciare la libera esplicazione dell’animo, né a disturbare la corretta e semplice formazione della personalità.

La natura com’è, senza preoccupazioni stilistiche e nemmeno programmatiche. Questo s’impone quando dipinge il nostro paesista, e con ciò ottiene di porre nettamente in valore il suo temperamento sensitivo e poetico.”

P.S. (SCARPA, Piero) (1931, 29 novembre). Gian Rodolfo d’Accardi. Il Messaggero.

 

“Sebbene il d’Accardi sia per natura un romantico sa frenarsi a buon punto e l’accentuato lirismo della sua tavolozza riesce ad accordarsi con il crudo realismo temperando e valorizzando le tonalità che potrebbero essere volute se lo spirito non riuscisse a dominare il cervello allorché la ricerca dell’effetto solitamente spinge involontariamente l’artista verso il trucco. Ma di trucco qui non ve n’è davvero, e nemmeno v’è da parlare di mestiere. La sincerità, la passione, l’emotività ed il gusto hanno modo di esercitare la loro influenza, per far sì che il contenuto dell’opera d’arte rappresenti unicamente lo stato d’animo dell’artista che considera il paesaggio, la veduta, la natura morta non quale insieme di elementi realistici e plastici, ma un accordo cromatico, il quale, sviluppando dolcissime armonie, si diffonde nella vastità dello spazio offrendo un succedersi di piacevolissime sensazioni.”

P. S. (SCARPA, Piero) (1938, 31 dicembre). Artisti che espongono. Il Messaggero.

Gino Traversi (1972, 1973)

“Su questa fondamentale impostazione, che ha eliminato ogni primitivo residuo chiaroscurale, l’artista, di origine siciliana, particolarmente sensibile ai passaggi repentini e netti dell’accesa policromia della sua terra, costruisce il suo linguaggio audace e al tempo stesso equilibrato. Si può affermare che d’Accardi giunge alla scoperta della bellezza del colore puro per istinto e nessuna sovrastruttura verrà a turbare la sua fascinosa avventura.

Ma c’è qualcosa di particolarmente significativo nella sua opera: la fusione armonica del colore timbrico con l’atmosfera.

Questa conquista che viene precisandosi gradualmente, trova la sua completa definizione in coincidenza con la maturità dell’artista quando — esempio piuttosto raro — all’accresciuta intensità del colore corrisponde una più incisiva presenza dell’ambiente.

Da un rapido sguardo retrospettivo che abbracci le feconde stagioni operative di d’Accardi — dalle esperienze tonali del primo periodo, alle successive ricerche di colore, alle più recenti indagini in direzione della materia e della grafica — si può agevolmente verificare una costante narrativa, che informa e caratterizza tutta l’opera del pittore.

I suoi cavalli, ai quali spetta, nell’iconologia moderna, una giusta collocazione per la snella nervosità della sintesi differenziante, s’inseriscono nel vasto repertorio tematico dell’artista prima del 1940. E con le amazzoni i cavalieri nelle gioconde ricognizioni attraverso i boschi umbratili e le foreste dense di umori primaverili; e poi le battaglie, che nella loro indefinita notazione realistica tendono a rievocare lo spirito, più che gli elementi visivi d’una situazione epica. Potrebbero anche apparire come pretesto di ritmi compositivi, di eleganze dinamiche e contrappunti cromatici, tuttavia non ci sembra estranea l’allusione agli antichi concetti di coraggio e di lealtà, a quello più ampio di libertà dei cavalli in fuga sulla neve o nelle baragge riarse. Dovremmo dire anche del sentimento di religiosità che permea le creazioni di d’Accardi, più evidente nelle asciutte e vibranti composizioni sacre, ma ognora presente in quei suoi squarci di natura estetica, nel trascorrere del tempo misurato dal trascolorare della luce.

E torniamo al protagonista di questa singolare vicenda artistica. Persino il nero ed il bianco d’Accardi usa in funzione di colore (Cesare Tallone affermava che erano i due colori più difficili) accanto alle note più varie della tavolozza particolarmente doviziosa, in cui si possono contare fino a sedici–diciotto gradazioni di verde.

Talvolta sembra che d’Accardi disegni col pennello, alla maniera greca, con un’essenzialità di tratto ed una foga riduttiva che rasentano l’astrazione.

Non credo, nonostante gli equivoci e la confusione di oggi, che un pittore possa aspirare a maggiore titolo di quello che il grande Arturo Martini attribuì a d’Accardi mentre nel ʼ39 visitava una sua mostra personale a Milano: «Ti voglio bene perché sei un poeta». A distanza di oltre trent’anni, il giudizio è più che mai valido, perché il lirismo che pervade la pittura di d’Accardi — tra i più prestigiosi coloristi del nostro tempo — è un fatto nativo e intimamente connesso alla sua felicità creativa.”

TRAVERSI, Gino (a cura di). (1972). Presentazione. In d’Accardi: catalogo delle opere. Galleria d’Arte Bambaia, Busto Arsizio. Milano: Tipografia Scotti.

 

“Una mostra di Gian Rodolfo d’Accardi, artista ch’è sulla breccia da quarant’anni, costituisce sempre un’occasione interessante e piacevole non fosse altro che per constatare la continuità d’un linguaggio mirabilmente fresco e vigoroso. D’Accardi è tra i non molti pittori della sua generazione — e di quelle successive — che non si è mai sottratto alla verifica dei valori pur lasciando la più ampia agibilità alla fantasia, al fermentante soggettivismo che caratterizza la sua opera cordialmente comunicativa.

È questa la prima volta che l’artista siciliano milanesizzato ordina, nonostante il suo interesse per le tecniche calcografiche, una rassegna individuale di grafica. Ma nel 1937 quando a Milano le gallerie si contavano su di una mano sola — lo troviamo in collettiva alla IIa Mostra internazionale del bianco e nero, organizzata dal Circolo Artistico Italo–Rumeno, assieme, tra gli altri, a Picasso, Braque, Rouault, Derain, De Vlaminck, Denis e altri italiani Breveglieri, de Chirico, Italo Valente e Salvatore Fiume.

D’Accardi ha sempre considerato il disegno come opera autonoma e l’espressione rivelatrice degli impulsi più intimi e segreti.

Il suo segno, veloce e scarno, si svolge ora continuo con andamento curvilineo, ora pausato e scandito in contorni netti a linea unica.

La rassegna si apre con un’acquaforte, appunto del 1937 (Testina di donna), e presenta una serie di quelle tipiche composizioni «di sottilissimo gusto» — come scriveva il Nebbia, nel ’50, a proposito della grafica di d’Accardi «tra il fiabesco e lo scenografico, dove la commedia degli uomini e delle cose, o il guizzo di variopinti destrieri s’intonano, ai margini della realtà, sopra i più sereni spunti di palpitante trasfigurazione poetica della natura».

Un riflesso dunque del suo mondo pittorico, che ci rivela lo stato emozionale dell’artista nel momento creativo, quel suo inseguire il moto della mano, nervoso e rigoroso, fino al groviglio di linee da cui emergerà, come inattesa visione, l’immagine voluta.

Linguaggio asciutto, ma non privo di seduzione per il suo raro equilibrio e l’afflato lirico che lo distingue.”

TRAVERSI, Gino (1973). Presentazione. In Gian Rodolfo d’Accardi. Biblioteca Comunale Palazzo Sormani, Milano. Milano: Tipografia Scotti.

Marisa Vescovo (1972)

“Espone alla galleria Alexandria il noto pittore di origine palermitana, ma milanese di adozione, Gian Rodolfo d’Accardi. Inutile stare a ripetere il suo fittissimo iter storico–artistico, ché ci occorrerebbero numerosi pagine; ci limiteremo quindi ad alcune osservazioni ed impressioni immediate. Ci pare chiaro che il clima in cui nascono e si evolvono queste opere sia quello di un recupero, profondamente sentito, di una libertà, di uno spazio, di un ambiente fatti a misura d’uomo. In tutte le tele esposte appare un mondo naturale che sembra quasi rinnovato da una palingenesi cosmica e totale, orizzonti boscosi e lussureggianti in cui appaiono come sospese presenze formali, come ombre di colore puro, i cavalli, segni vitali di un pianeta che può ancora essere abitato. In questa natura evocata per forza di magia l’uomo compare fugacemente come una presenza complementare degli animali, una presenza evanescente che si manifesta come un prodigio. In questo spazio le figure dei cavalli e dei cavalieri appaiono come trasparenti e immersi in una luce dolce e molle di fiaba gotica. I colori intensi e lucidi, quasi come un intarsio di pietre dure, scelti badando soltanto ad una legge di armonia decorativa che non tiene conto dei rapporti con la realtà, accentuano così un effetto di incantata astrazione. In quasi tutti questi quadri grandi alberi formano una cortina trasparente che fa da piano intermedio tra il primo piano e la profondità dei cieli intensi e serotini. La parte illuminata e quella in ombra sono ottenute con toni giustapposti e clamanti, anche se nel rapporto tonale si sente soprattutto una relazione chiaroscurale attenta alle note più alte e timbriche del colore. La profondità dello spazio è risolta nella superficie della pittura e attraverso il rado e arabescante diaframma degli alberi lo sguardo riesce a penetrare verso lontananze suggestive poetiche che ci ricordano da vicino la “scapigliatura lombarda”. Così le figure che animano queste tele sono immerse in una dimensione allusiva ed abbrividente, animata da lunghi e umili silenzi, rotti soltanto da dense piaghe di luce che inondano e nutrono le cose. C’è in tutto questo un’aria di elegia e un profondo rimpianto per una natura amica, gravida di dolcezza, che dovrebbe darci il senso di un approdo e non di una tomba come spesso succede oggi. Ci sembra che d’Accardi, in queste opere, sia tutto teso verso una trasfigurazione della natura che passa prima attraverso la demolizione della spatolata violenta di colore, per poi poterla ricostruire liricamente in tutte le sue entusiasmanti strutture e sfumature.”

VESCOVO, Marisa (1972, 25 novembre). Gli sfrenati puledri della fantasia di d’Accardi. Il Piccolo.

Jeanne Paris (1971)

“Gian Rodolfo d’Accardi — The New York Cultural Center, 2 Columbus Circle, dal 28 Novembre. I dipinti di questo pittore milanese, la cui reputazione sul Continente ha fatto sì che le sue opere fossero esposte insieme a quelle di maestri come Picasso, Matisse ed altri di tale calibro, emanano vibrazioni liriche. Ora d’Accardi, con questa mostra, crea per se stesso un luogo simile qui a New York.

Con pennellate ampie e brevi, accompagnate da una tavolozza che dipinge il vento e l’atmosfera, come pure i suoi amati cavalli e foreste, comunica una gioia e una vitalità che avvolgono completamente l’osservatore.

Tutti i suoi dipinti pulsano di un movimento, a volte diffuso, altre volte diretto, che conferisce loro un’immediatezza particolarmente attraente. Alcune delle sue opere sono semi-astratte, soprattutto i boschi, dove i tronchi d’albero si fondono l’un l’altro, in motivi astratti.

È un uomo che ama la vita e la dipinge di conseguenza.”

PARIS, Jeanne (1971). Gian Rodolfo d’Accardi. Long Island Press. Sunday Edition.

🇫🇷 (1931)

“Ce jeune peintre de 25 printemps apparaît, à travers sa participation à L’Exposition de Turin, comme un interprète sensible et poétique de la Nature. Son tableau évoque, en effet, avec beaucoup de couleur, beaucoup de lumière et des transparences subtiles d’atmosphère, un modeste coin de village enfoui dans la verdure.

Au surplus, il semble bien que les arbres soient les modèles préférés de Gian Rodolfo d’Accardi. Il les peint avec des soins amoureux, tout en s’attachant à nen inscrire que la forme synthétique et expressive. Il termine toujours sa toile en une seule séance, même quand il s’agit de figure. Il lui faut en effet, et je le comprends, l’influence de l’inspiration du moment, l’impression fuyante qui permet de réaliser l’œuvre véritablement spontanée et pour cela plus suggestive. Pour la même raison, sa peinture est large, nerveuse toujours nimbée d’une délicate et subtile poésie.

Il est même à remarquer que ce sens poétique manifeste chez Gian Rodolfo d’Accardi ne s’extériorise pas seulement par les tableaux. Il s’exprime aussi littérairement, et le peintre aime accompagner ses toiles de courts poèmes qui en disent l’harmonie et le sens profond avec délicatesse.

Gian Rodolfo d’Accardi est originaire de Palerme. Mais il s’est fixé en 1924 à Milan et a adopté la belle capitale lombarde.”

 

Gian Rodolfo d’Accardi (1931). In Revue moderne illustrée des arts et de la vie.